“Giunsi a Torino dopo 35 giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i famigliari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere.
Ritrovai gli amici pieni di vita,, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito,
che a sera cedette morbido sotto il mio peso.
Ma solo dopo molti mesi svanì in me l’abitudine di camminare
con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare
o da intascare e vendere per pane, e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli
ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento:
sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco io so che cosa significa,
e so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in un Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager.
Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa.
Ora questo sogno interno, il sogno di pace è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa.
E’ il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, “Wstawàc”
Primo Levi, La Tregua, Einaudi, pag. 269
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